martedì 4 ottobre 2011

Sentimi


La sorella di Parmenide
C’è sicuramente un intreccio sotterraneo che spesso trapela e spunta anche con segni persi, dimenticati e, di fatto, invisibili (o resi tali) da dover/poter cogliere e tutti ancora, di fatto, da decifrare. Tanto che non è forse lecito, per esempio, immaginare che lo stesso pensiero di Parmenide potrebbe essere stato veramente il frutto degli insegnamenti di una donna o meglio, come ipotizza fantasticamente Popper, di una sua sorella, per giunta (o necessariamente) cieca?
(…) Grazie a lei egli imparò a parlare. Lei gli insegnò la poesia e successivamente egli le recitò Omero ed Esiodo. Lei fu la sua guida etica ed egli dovette molto alla sua giustizia e disciplina. Lei fu per lui una dèa e fonte di saggezza. Lei gli insegnò del tutto inconsapevolmente che la luce non è pienamente reale (…). Ciò che lui e la sua sorella avevano in comune era il mondo materiale del tatto e il mondo illusorio della poesia. Da lei imparò che esiste il tangibile (materialismo). (…). Più grande di lui di almeno sei o sette anni, (…) cieca (…) amava il proprio fratello il quale la teneva in grande considerazione: ella fu la sua guida e punto di riferimento dopo la morte della loro madre.[1] 
Allora, anche questa filosofia parmenidea, così assolutamente maschile, potrebbe contenere (e pur contiene) la traccia di una differenza, come risonanza femminile. Anche perché, poi, sono le figlie di Helios che conducono, nel Proemio, il carro di Parmenide non verso un deo, ma da Dike, una dea[2], appunto, che, convinta così dalle fanciulle stesse, avvia la (sua) rivelazione delle due Vie: Verità e Illusione. E tale dea, “perlomeno in alcune rappresentazioni, appariva bendata”[3], come d’altronde per tradizione anche altre dee. Tali raffigurazioni le mostra tutte imberbe, glabre ovviamente, prive della barba, profetica e patriarcale, ostentata invece nei ritratti scultorei, anche come segno unico ed evidente della virilità sapienziale o della possibilità simbolica di un poter essere e diventare naturalmente filo-sofi.


[1] La sorella cieca di Parmenide: un racconto fantastico in Karl  R. Popper, The World of Parmenides, Rutledge, Londra 1998, tr. it. di Fabio Minazzi, Il mondo di Parmenide, Frammento 3, PIEMME, Casale Monferrato 1998, p. 373-374.
[2] “Come si può dare a dio un genere femminile? (…) Ci sono in greco due modi egualmente corretti per indicare una dea: ricorrendo al termine theà, forma femminile di theòs o usando il termine theòs stesso, morfologicamente maschile, ma preceduto dall’articolo femminile o precisato dal contesto. (…) Ho theòs, he theòs: il dio, la dea. (..) Nondimeno he theòs designa in primo luogo un essere divino che si trova per di più affetto da un segno femminile. (…) Che cosa c’è di theà e di theòs, contemporaneamente, in una dea? Theòs: il divino generico, al di là della differenza dei sessi; theà: una divinità femminile. Theài, dunque: le dee. Se si dimenticasse per un istante che theà può essere sempre sostituita da theòs, la tentazione forse sarebbe di cercare in ogni dea l’incarnazione di un “tipo” femminile, con la speranza di costituire finalmente il gruppo delle theài in un sistema simbolico della femminilità. (…)  Ma (…) nulla dice che ogni dea sia (…) un archetipo [femminile]. (…) Indubbiamente, se il termine theà è una forma femminile, se ogni theà è caratterizzata, quando se ne scolpisce l’immagine, con forme femminili, nulla ci dice che, in una dea, il femminile prevalga sullo statuto divino. Ancora una volta, sarebbe forse il dio a dominare nella dea?” (Nicole Loraux, Che cos’è una dea?, in Georges Duby, Michelle Perrot, Storia delle Donne. L’antichità, cit., pp.16-18-19-21); cfr.: anche un testo fondamentale di Mary Daly, Beyond God the Father: toward a Philosophy of Women’s Liberation, 1973, tr. di Donatella Malsano e Maureen Lister, Al di là di Dio Padre. Verso una filosofia della liberazione delle donne, Ed. Riuniti, Roma 1990 di cui, a tale proposito, Chiara Zamboni scrive:” Forse non è un caso che sia una donna che ha ragionato sul nome di Dio (…). E’ sempre rivoluzionario, lei si chiede, adoperare il nome Dea al posto di quello di Dio?” (Pescare nella corrente, “Via Dogana”, rivista di pratica politica, n.68, Milano 2004, p. 14) e ancora sull’argomento riflettendo sul testo di Mary Daly, cfr. Laura Boella, Figure rubate alla filosofia, in “Reti”, Pratiche e saperi di donne, n. 6, Ed. Riuniti, Roma 1990: “Il nodo resta ancora la proposta della religione della Dea, intesa come Madre-Figlia, opposta al Padre-Figlio.” (ivi, p. 33).
[3] Karl  R. Popper, Il mondo di Parmenide, Frammento 3, cit., p. 374.