sabato 13 febbraio 2016

La matrice del Sé. C’è una matri-linearità semantico-linguistica che segna la posizione e la storia ginea-logica del Sé personale nell’acquisizione di senso naturale, culturale e sociale: dalla physis, materia matrice e genitrice dell’origine, che (ci) principia, alla lingua sorgiva (cfr. il mio Il corpo di Diotima, La passione filosofica e la libertà femminile, Quodlibet, p. 92) di appartenenza in quanto materna, che permette al corpo di farsi pensante per mediazione vivente e continua. Si entra così, in fondo in nudità, sulla scena del mondo in quell’orizzonte dove si viene collocati sessualmente fino alla coscienza di sè dell’essere-al-mondo. Tale prima esperienza è talmente ineluttabile e inevitabile da pagarne il prezzo proprio nel distacco, come un esilio, quasi estradizione ed esmatrio (da espatrio) dalla madre-patria, in uno “sbilanciamento generoso di gravità” (Adrienne Rich, Nato di Donna), che solo genera il genere del Sé, così Freud, sottolinea Luce Irigaray, per la necessaria scrittura autobiografica del ritratto umano, che più umano non (si) può. L’invisibile storico, in tale funzione, della carne materna, però, ne assottiglia le procedure portanti: da quelle indicali, come indice di riferimento e indizio di fondo, a quelle iconiche così intrascurabili nell’immaginario dell’essere vivente e, inoltre, a quelle simboliche, quali metro, impronta e misura di ogni vissuto. In questa presa di coscienza sta la possibilità di darsi ordine (Il corpo di Diotima, p. 83), sulla scia dell’ordine materno di Luisa Muraro, ma anche delle amiche isteriche di Angela Putino. C’è un’identità sessuale che non può non risalire (a ritroso) il fiume della vita alla fonte indiscussa della madre come l’unica rotonda verità: l’antica origine che, accogliendo la vita, ne contiene la capacità al farsi vita. Qui si s-maschera definitivamente la presunta neutralità del soggetto dell’Occidente che si omologa proprio nella cancellazione del Sé generativo, rubandone l’atto. La terra-madre sarà sempre da fecondare, come Eschilo nelle Eumenidi, ma l’intra-presa si fa, al femminile, dono e ospite al tempo stesso di vita, delineandosi così la sapienza della differenza sessuale impossibile a essere ridotta a stereotipata diversità, che, proprio nello scarto divergente, neutralizza la potenza della propria specificità sessuale per l’intera specie umana. Generare generazioni vale nella lingua materna a dirsi e a darsi il valore del Sé: “nel suo ventre riparo di pelle, membrane, acqua -tutto un mondo (…) da cui tutto proviene senza richiesta” (Luce Irigaray, L’invisibile della carne). Qui sta la gratitudine reale e il riconoscimento dell’unica costruzione che simbolicamente si perpetua in ogni atto generazionale, come percorso necessario di ri-scoperta. D’altronde, in ogni donna abita una madre parlante e la portata della sua possibile libertà femminile (Il corpo di Diotima, da p. 199), di cui il Movimento delle Donne, nel Novecento, ne ha aperto e riaperto lo sguardo e la strada. Alla nostra generazione spetta la fecondità e la maternità (politica) di tale trasmissione, senza tradirne la valenza etica nel recupero del fatto-in-sé, nutrito di consapevolezza e di apertura a gesti di con-vivialità e con-vivenza civile di fondo: oggi, così in astinenza brutale di essenzialità e di autenticità. Venir al mondo nella nudità. La semplice verità umana, spalancata sul mondo, è quella del corpo, a cui si appartiene naturalmente e non va obliata, tanto meno soffocata, se non plastificata, da una modernità avvolgente ed estraniante. E, allora, magari va annunciata ogni volta quando dimentica di sé. Necessita nominarla in prima persona perché è, in quel momento, che si viene a contatto con l’essenzialità del Sé, a cui mai rinunciare o ridurre a un rumore di fondo o addirittura rimuovere. Anzi. “E’ nel 900 che il corpo sessuato (…) irrompe col principio di nascita sessuata e, allora, le ragioni [delle donne] iniziano ad affermare e a praticare il senso della libertà femminile” . Il corpo, nella sua nudità, è segnato dalla primaria differenza sessuale, che, pur nella sola conformazione biologica, indipendentemente dallo stesso orientamento sessuale, si pone ineludibile. Questa differenza, che non è una diversità , qualifica il corpo e la materia e, quando quello femminile entra nella storia, modifica riti, usanze e circostanze e non c’è dubbio che le donne, come afferma Alessandra Bocchetti “sono le abitatrici del 900 da sempre” , perché, nella presa di coscienza, si è affermata l’indipendenza della libertà, qualificandosi come (anche) femminile: “Cosa vuol dire per le donne un «pensiero indipendente»? Significa pensare se stesse attraverso la propria esperienza, la propria storia, non misurarsi con l’uomo e la sua ragione e la sua storia per trovare misura di sé. Se ciò che chiamiamo «libertà femminile» è questo, riguarda il piano radicale della rappresentazione simbolica. La libertà in questo senso è necessaria come il cibo, è un bisogno essenziale. È a questo punto che salta agli occhi qualcosa che ci fa fare un passo avanti: tutto quello che, nella nostra vita, abbiamo fatto nel bene e nel male, nelle cose riuscite come nei fallimenti più disastrosi, tutto parlava del bisogno di questa libertà. Dunque, è sul piano della ricerca di libertà che dobbiamo rileggere la nostra personale storia e impostare il lavoro futuro” . L’esperienza di scrivere sulla sabbia. Qui si pone la questione dalla tradizione che ogni volta si (ri)propone per l’attenzione e la cura del fare tradizione femminile per marcare il presente perché ciò, da cui si proviene, determina ciò che si è. L’accumulo d’esperienza permette di maturare competenza: tocca al presente generare generazioni, aperte e possibili ad accogliere il testimone, appunto nel tentativo continuo di fare tradizione come lezione viva della soggettività di genere, che si è nutrita e continua a nutrirsi del valore della relazione interpersonale, consapevole del passaggio. Perché se nel trasmettere è possibile il tradimento anche inconsapevole, la cura e l’attenzione della consegna non possono non avvalersi della condivisione intergenerazionale, mai ex cattedra ma diretta e coinvolgente e, soprattutto, nutrita e vivificata dall’esperienza riflessa, così vissuta e agita. Il pensiero dell’esperienza nasce dalla materialità della vita di cui le donne sanno esprimere sapienza nella capacità di mettere al mondo il mondo , che mai è dimentica di sé e da cui parte la specie umana. Efficace, nell’accentuare il valore della concretezza femminile, da parte del filosofo Karl R. Popper, l’immaginaria figura della sorella cieca di Parmenide che permette simbolicamente alla grande metafisica occidentale di nascere. Diventa fondamentale né diventa affatto aleatorio custodire il fuoco della memoria storica, che va sedimentata e, in primis, scovata e mantenuta, come la ricerca storiografica dell’attuale Società delle Storiche Italiane comprova. D’altronde, cosa significa esperire, fare esperienza? Non certo scrivere sulla sabbia, ma far lievitare, come il pane, ciò che può fecondare. Si diventa periti nel lavorìo maturato, perché capaci di procedere superando continuamente ogni momento senza disperderlo: c’è l’idea di qualcosa che si compie e che annuncia novità . Questo impegno allarga la conoscenza, scalzando quella tradizione in cui le donne erano un’icona vacua, senza traccia propria e idealizzata. Provocazione o restituzione della verità? Il violare e la virtù. “L’uomo ha cercato il senso della vita aldilà e spesso contro la vita materiale stessa; per la donna vita e senso della vita si sovrappongono continuamente. Abbiamo dovuto attendere millenni perché l’angoscia maschile verso il nostro atteggiamento finisse di addebitarci il marchio d’inferiorità. Se la donna è immanenza e l’uomo trascendenza: in questa contrapposizione la filosofia ha segnato e scritto la gerarchia dei destini […]. E se la femminilità è immanenza, l’uomo ha dovuto negarla per essere lui nella storia”, così scrive Carla Lonzi negli anni 70. Su questi assi culturali si inalbera la radice etimologica proprio del termine violenza che è la stessa di virtù, là dove l’aretè greca annuncia e proclama la vittoria fisica sulla natura violata, forzata e dominata al punto di concepirla proprio come nell’atto sessuale, che solo il vir può, perché strumentato e capace di possedere. Un posse che viene traslato in un velle morale, civico e anche spirituale nel segnare il dominio sull’istinto (animalesco) sconfitto e piegato da virtù cardinali, di cui la secolarizzazione cristiana poi imprime in Occidente il marchio morale definitivo. E il corpo femminile diventa per secoli l’emblema del vizio per natura, la phisis che nel sangue malefico e mestruale esprime l’impurità e solo nel posizionamento dell’homo herectus si annuncia il potere fattosi storia umana sul mondo (da conquistare come terra vergine). Da cui gli uomini maschi nella divisione (solo sociale) dei ruoli, dal Neolitico in avanti, si sono esonerati dal lavoro di cura di sé, della prole e, quindi, della specie (seminata), in un gymnasium separatista di cui il patri-monio e il matri-monio sono dichiarazioni di spazi, di luoghi e di tempi, propri e impropri (cfr. Il corpo di Diotima. La passione e la libertà femminile, p. 157). Non si nasce violenti, lo si diventa (come si nasce ineluttabilmente da corpo femminile) per affermarsi tramite il possesso e da qui tutto l’inventario delle cose certe, puntualizzerebbe Joyce Lussu, sul corpo femminile: l’imene, la dote, l’isteria che costituiscono l’insieme della verginità come garanzia. Ma come donne abbiamo questo statuto da assolvere? Perché ogni gesto femminile, dal misticismo alla veggenza alla cura di sé e del mondo, viene (s)travolto nello scarto maschile che mantiene per sé pornografia e prostituzione come due estremi emblematici di una sessualità (quella maschile) ancora tutta irrisolta tra bisogno e desiderio? Da qui, è possibile per ognuna/o di noi trovare una chiave per leggere e interpretare l’attuale femminicidio e rimando, tra i tanti, anche agli interventi di Michela Marzano e di Lidia Menapace. Ma la domanda da porre alla nostra riflessione è se l’autorità e la libertà possono convivere o è una forzatura tra (un) uomo e (una) donna?