giovedì 22 dicembre 2016

TANTA VITA TANTA STORIA
Nell'accumulo esistenziale quasi ingordo anno dopo anno si innesta il nostro tempo e se l'eternità c'appare ormai una banale chimera di gioventù s'apre una dimensione piena come un uovo quasi soffocante di gesti forse ripetitivi soprattutto durante le festività in cui si vorrebbe cedere all'attimo fuggente e invece il peso di ciò che è stato nel bene e nel male d'accumulo di tanto pure nel poco spesso inevitabile e il pensiero (s)fugge là dove tutto scomparirà in un altrove e solo chi resta potrà essere prodromo certo di vita solo prossima.

lunedì 19 dicembre 2016

IN O UN FINALE Qui diventa vitalmente denotativo, come una pietra miliare, riconoscere il timbro poetico del proprio Sè, anche quando sepolto e mai interrogato, ma sempre tratteggia la nostra strada con segni tutti da (ri)prendere e (ri)scoprire così quotidianamente nel lavoro minuto del cesellatore o meglio del restauratore. Perchè lì c'è scritta quella vita che si fa e che si scopre esistenza pur singolare ma speculare alla specie, nella dimensione culturale e sociale allocata: per segni indelebili anche quando (permangono) invisibili alla coscienza, anche per chi ne trascura la valenza compositiva. In questo senso gli umani compiono, vivendo, la loro opera d'arte come i mortali omerici cantati in espliciti volumi epici. (p. 85 in "L'invidia di Aristotele ovvero della vir-tù (femminile)", intr. di Arianna Fermani, affinità elettive editore, Ancona dicembre 2016). Foto storica: Roma 1948
POST REM (2) D'altronde, ogni esistenza riprende il viaggio (unico) della vita e s'imbatte sia su certi rifiuti sia anche su fiori e frutti raccolti, fino a quando arriva quell'età in cui ci si fa custode di sè e del mondo, se lo sguardo matura oltre quel limite temporale che spesso ne preclude lo slancio. Anzi, lo avverte come propria nuova possibilità. E' questo il viaggio più nobile e avventuroso con tutte le scoperte, le apparizioni improvvise e impreviste, i contrattempi, i fastidi, le ore belle e le risate (non solo di gioventù). I racconti famigliari e familiari sono come intermittenze che riportano, nella (nostra) memoria, in vita la vita: fanno divertire e fanno piangere autenticamente (e sempre di più e pure senza accorgersene). p. 83 in "L'invidia di Aristotele ovvero della vir-tù (femminile)", introduzione di Arianna Fermani, affinità elettive editore, Ancona dicembre 2016
POST REM (1) Ci sono strade che si percorrono ogni giorno dando di esse scontato il rifacimento, l'adeguamento (un tempo avvertito come ammodernamento), che (ci) hanno segnato e modificato il cuore medesimo. Come quelle, dato il senso paradigmatico del partire-da-sè, del cuore che corrono sulla linea (ideale) del mare e che con la costa battono vicino alla risacca, con stupore ogni volta o come quelle traiettorie tra le colline e in campagna, anche tra l'erbaccia e l'abbandono arrugginito di carcasse (pesuedomoderne, ormai o neanche più tali). (p. 83 in "L'invidia di Aristotele ovvero della vir-tù (maschile)", intr. di Arianna Fermani, affinità elettive, Ancona dicembre 2016)
IN RE (2) Basta un attimo paterno per compensare assenze, come basta un'assenza materna per scompaginare la nativa presenza e, come in una cartolina d'epoca, l'infanzia s'incastona dentro, risalendo poi ai dolori dell'adolescenza, spesso solitari o appoggiati ad amicizie affettuose continue sempre ricercate ma pur sofferte fino all'ultimo respiro. Tutto si mescola e tutto può anche confondersi, ma mai perdersi (completamente): c'è un luogo-del-Sé abitato nella mente e, di continuo, ritorna al presente. (p. 82, in " L'invidia di Aristotele ovvero della vir-tù (femminile)", introduzione di Arianna Fermani, affinità elettive Ancona dicembre 2016)

domenica 18 dicembre 2016

IN RE (1) Un sorriso beffardo di una nonna o lo sguardo materno celebre per l'amore assoluto, dovuto e (magari) pure temuto, per l'incertezza spesso anche sofferta, dello starsi accanto, non proprio adeguato alle sue (presumibili) aspettative, nel confronto pressante e sotterraneamente sempre presente in ogni infante, se poi dello stesso sesso, quasi un recondito respiro soffocante. Così spesso si mostra o meglio s'avvera felice qualsiasi altro gesto paterno, amoroso (al sapore di pace e noci) proprio perché quasi rapsodici, per la bonarieta' di occasioni eccezionali, quasi proverbiali. Tanto vicino come mai raramente spesso è possibile. (p. 81, in "L'invidia di Aristotele ovvero della vir-tù (femminile)", affinità elettive editore, Ancona dicembre 2016)

martedì 13 dicembre 2016

ANTE REM (2)
Da qui la giusta e necessaria riflessione sul senso dell'identità che si pone come un'opera d'arte a cui non si può negare una legenda, quasi una nomenclatura che ne stigmatizzi una sorta di poetica dell'essere che riflette e cerca di riprendere il proprio Sè nei margini o negli interstizi della memoria dell'Io, delineandone quel filo spesso sconnesso perchè sepolto, sul quale (s)corre ravvisato il proprio tratto. (...) Il proprio spazio nella libertà dell'ascolto reciproco e nel farsi riconoscere senza congetture, senza note a margine per una frammentarietà memoriale che travalica e può compiersi sciogliendosi dai vincoli (stretti) di un contesto. (p. 80, in "L'invidia di Aristotele ovvero della vir-tù (femminile)", intr. di Arianna Fermani, affinità elettive, Ancona 2016, www.edizioniae.it) Foto. Ste Po

lunedì 12 dicembre 2016

ANTE REM (1) Raccogliere e osservare: un prendersi cura di tutto. Anche di quell'eventuale superfluo che si annida scartato e rimane poi così indelebile, quasi stanziale. All'insaputa. Perchè poi, soltanto dopo (e, forse, anche molto tempo dopo), ci si accorge che tutto è a deposito, disposto nella (im)permeata memoria del Sè, fondamentalmente sconosciuta, in quella psiche, magma senza gerarchie, che, magari all'improvviso, si srotola come su un piano inclinato di (in)comprensione, spesso, (im)possibile. (p. 80 in "L'invidia di Aristotele ovvero della vir-tù (femminile)",introduzione di Arianna Fermani Affinità Elettive Edizioni, http://www.edizioniae.it/, Ancona 2016, p.80) Foto: con Heidegger alle spalle

domenica 27 novembre 2016

La mia nuova "creatura": "L'invidia di Aristotele ovvero della vir-tù (femmninile)", edizioni affinità elettive, Ancona 2016
DISTINGUO Sempre più necessita la distinzione tra le parole DIFFERENZA e DIVERSITA' (e il loro banal uso), perchè nella forma s'insinua la sostanza e s'insedia così spesso l'ovvietà grossolana e sempre violenta, mentre solo la (propria) cura-di-sè passa, in primis, attraverso quelle (nostre) parole che il corpo ospita o meglio (ri)veste, anzi le abita come naturali e tali non sono: "Interessante qui aver presente o fare (e, magari, rifare ogni volta), una sorta di ri-configurazione semantica, partendo dalla chiave/radice etimologica dei due termini, differenza e diversità, spesso usati a sinonimo, portatori, invece, di ambiti/campi di significato ben distinti e molto rivelatori (che avrò modo di rendere evidenti, nel praticarli, durante il percorso), perché sono possibili nuovi ascolti e nuove prospettive, funzionali e capaci di mostrarne la portata ermeneutica, epistemologica ed etica sul piano categoriale e concettuale: differenza, dal gr. dia-phora (portare attraverso sé, in sé, quel qualcosa che qualifica, specifica e distingue rendendo evidente la peculiarità e la ricchezza dell’essere, dalla primaria differenza, quella sessuale, che esplicita il genere/gender alla specie biologica/psicologica, naturale/culturale di appartenenza); diversità, dal lat. divertere, de-viare, cambiare strada, di-vergere, dividere (implica un giudizio di valore storicamente determinato, gerarchizzato ideologicamente che nel sistemare valuta, coprendo e chiudendo l’essere, rispetto a un unico criterio possibile, indiscusso e presunto oggettivo/neutro)" Cfr.: "Il corpo di Diotima. La passione filosofica e la libertà femminile", Quodlibet (2ed, 2011), pp.15-16.

sabato 13 febbraio 2016

La matrice del Sé. C’è una matri-linearità semantico-linguistica che segna la posizione e la storia ginea-logica del Sé personale nell’acquisizione di senso naturale, culturale e sociale: dalla physis, materia matrice e genitrice dell’origine, che (ci) principia, alla lingua sorgiva (cfr. il mio Il corpo di Diotima, La passione filosofica e la libertà femminile, Quodlibet, p. 92) di appartenenza in quanto materna, che permette al corpo di farsi pensante per mediazione vivente e continua. Si entra così, in fondo in nudità, sulla scena del mondo in quell’orizzonte dove si viene collocati sessualmente fino alla coscienza di sè dell’essere-al-mondo. Tale prima esperienza è talmente ineluttabile e inevitabile da pagarne il prezzo proprio nel distacco, come un esilio, quasi estradizione ed esmatrio (da espatrio) dalla madre-patria, in uno “sbilanciamento generoso di gravità” (Adrienne Rich, Nato di Donna), che solo genera il genere del Sé, così Freud, sottolinea Luce Irigaray, per la necessaria scrittura autobiografica del ritratto umano, che più umano non (si) può. L’invisibile storico, in tale funzione, della carne materna, però, ne assottiglia le procedure portanti: da quelle indicali, come indice di riferimento e indizio di fondo, a quelle iconiche così intrascurabili nell’immaginario dell’essere vivente e, inoltre, a quelle simboliche, quali metro, impronta e misura di ogni vissuto. In questa presa di coscienza sta la possibilità di darsi ordine (Il corpo di Diotima, p. 83), sulla scia dell’ordine materno di Luisa Muraro, ma anche delle amiche isteriche di Angela Putino. C’è un’identità sessuale che non può non risalire (a ritroso) il fiume della vita alla fonte indiscussa della madre come l’unica rotonda verità: l’antica origine che, accogliendo la vita, ne contiene la capacità al farsi vita. Qui si s-maschera definitivamente la presunta neutralità del soggetto dell’Occidente che si omologa proprio nella cancellazione del Sé generativo, rubandone l’atto. La terra-madre sarà sempre da fecondare, come Eschilo nelle Eumenidi, ma l’intra-presa si fa, al femminile, dono e ospite al tempo stesso di vita, delineandosi così la sapienza della differenza sessuale impossibile a essere ridotta a stereotipata diversità, che, proprio nello scarto divergente, neutralizza la potenza della propria specificità sessuale per l’intera specie umana. Generare generazioni vale nella lingua materna a dirsi e a darsi il valore del Sé: “nel suo ventre riparo di pelle, membrane, acqua -tutto un mondo (…) da cui tutto proviene senza richiesta” (Luce Irigaray, L’invisibile della carne). Qui sta la gratitudine reale e il riconoscimento dell’unica costruzione che simbolicamente si perpetua in ogni atto generazionale, come percorso necessario di ri-scoperta. D’altronde, in ogni donna abita una madre parlante e la portata della sua possibile libertà femminile (Il corpo di Diotima, da p. 199), di cui il Movimento delle Donne, nel Novecento, ne ha aperto e riaperto lo sguardo e la strada. Alla nostra generazione spetta la fecondità e la maternità (politica) di tale trasmissione, senza tradirne la valenza etica nel recupero del fatto-in-sé, nutrito di consapevolezza e di apertura a gesti di con-vivialità e con-vivenza civile di fondo: oggi, così in astinenza brutale di essenzialità e di autenticità. Venir al mondo nella nudità. La semplice verità umana, spalancata sul mondo, è quella del corpo, a cui si appartiene naturalmente e non va obliata, tanto meno soffocata, se non plastificata, da una modernità avvolgente ed estraniante. E, allora, magari va annunciata ogni volta quando dimentica di sé. Necessita nominarla in prima persona perché è, in quel momento, che si viene a contatto con l’essenzialità del Sé, a cui mai rinunciare o ridurre a un rumore di fondo o addirittura rimuovere. Anzi. “E’ nel 900 che il corpo sessuato (…) irrompe col principio di nascita sessuata e, allora, le ragioni [delle donne] iniziano ad affermare e a praticare il senso della libertà femminile” . Il corpo, nella sua nudità, è segnato dalla primaria differenza sessuale, che, pur nella sola conformazione biologica, indipendentemente dallo stesso orientamento sessuale, si pone ineludibile. Questa differenza, che non è una diversità , qualifica il corpo e la materia e, quando quello femminile entra nella storia, modifica riti, usanze e circostanze e non c’è dubbio che le donne, come afferma Alessandra Bocchetti “sono le abitatrici del 900 da sempre” , perché, nella presa di coscienza, si è affermata l’indipendenza della libertà, qualificandosi come (anche) femminile: “Cosa vuol dire per le donne un «pensiero indipendente»? Significa pensare se stesse attraverso la propria esperienza, la propria storia, non misurarsi con l’uomo e la sua ragione e la sua storia per trovare misura di sé. Se ciò che chiamiamo «libertà femminile» è questo, riguarda il piano radicale della rappresentazione simbolica. La libertà in questo senso è necessaria come il cibo, è un bisogno essenziale. È a questo punto che salta agli occhi qualcosa che ci fa fare un passo avanti: tutto quello che, nella nostra vita, abbiamo fatto nel bene e nel male, nelle cose riuscite come nei fallimenti più disastrosi, tutto parlava del bisogno di questa libertà. Dunque, è sul piano della ricerca di libertà che dobbiamo rileggere la nostra personale storia e impostare il lavoro futuro” . L’esperienza di scrivere sulla sabbia. Qui si pone la questione dalla tradizione che ogni volta si (ri)propone per l’attenzione e la cura del fare tradizione femminile per marcare il presente perché ciò, da cui si proviene, determina ciò che si è. L’accumulo d’esperienza permette di maturare competenza: tocca al presente generare generazioni, aperte e possibili ad accogliere il testimone, appunto nel tentativo continuo di fare tradizione come lezione viva della soggettività di genere, che si è nutrita e continua a nutrirsi del valore della relazione interpersonale, consapevole del passaggio. Perché se nel trasmettere è possibile il tradimento anche inconsapevole, la cura e l’attenzione della consegna non possono non avvalersi della condivisione intergenerazionale, mai ex cattedra ma diretta e coinvolgente e, soprattutto, nutrita e vivificata dall’esperienza riflessa, così vissuta e agita. Il pensiero dell’esperienza nasce dalla materialità della vita di cui le donne sanno esprimere sapienza nella capacità di mettere al mondo il mondo , che mai è dimentica di sé e da cui parte la specie umana. Efficace, nell’accentuare il valore della concretezza femminile, da parte del filosofo Karl R. Popper, l’immaginaria figura della sorella cieca di Parmenide che permette simbolicamente alla grande metafisica occidentale di nascere. Diventa fondamentale né diventa affatto aleatorio custodire il fuoco della memoria storica, che va sedimentata e, in primis, scovata e mantenuta, come la ricerca storiografica dell’attuale Società delle Storiche Italiane comprova. D’altronde, cosa significa esperire, fare esperienza? Non certo scrivere sulla sabbia, ma far lievitare, come il pane, ciò che può fecondare. Si diventa periti nel lavorìo maturato, perché capaci di procedere superando continuamente ogni momento senza disperderlo: c’è l’idea di qualcosa che si compie e che annuncia novità . Questo impegno allarga la conoscenza, scalzando quella tradizione in cui le donne erano un’icona vacua, senza traccia propria e idealizzata. Provocazione o restituzione della verità? Il violare e la virtù. “L’uomo ha cercato il senso della vita aldilà e spesso contro la vita materiale stessa; per la donna vita e senso della vita si sovrappongono continuamente. Abbiamo dovuto attendere millenni perché l’angoscia maschile verso il nostro atteggiamento finisse di addebitarci il marchio d’inferiorità. Se la donna è immanenza e l’uomo trascendenza: in questa contrapposizione la filosofia ha segnato e scritto la gerarchia dei destini […]. E se la femminilità è immanenza, l’uomo ha dovuto negarla per essere lui nella storia”, così scrive Carla Lonzi negli anni 70. Su questi assi culturali si inalbera la radice etimologica proprio del termine violenza che è la stessa di virtù, là dove l’aretè greca annuncia e proclama la vittoria fisica sulla natura violata, forzata e dominata al punto di concepirla proprio come nell’atto sessuale, che solo il vir può, perché strumentato e capace di possedere. Un posse che viene traslato in un velle morale, civico e anche spirituale nel segnare il dominio sull’istinto (animalesco) sconfitto e piegato da virtù cardinali, di cui la secolarizzazione cristiana poi imprime in Occidente il marchio morale definitivo. E il corpo femminile diventa per secoli l’emblema del vizio per natura, la phisis che nel sangue malefico e mestruale esprime l’impurità e solo nel posizionamento dell’homo herectus si annuncia il potere fattosi storia umana sul mondo (da conquistare come terra vergine). Da cui gli uomini maschi nella divisione (solo sociale) dei ruoli, dal Neolitico in avanti, si sono esonerati dal lavoro di cura di sé, della prole e, quindi, della specie (seminata), in un gymnasium separatista di cui il patri-monio e il matri-monio sono dichiarazioni di spazi, di luoghi e di tempi, propri e impropri (cfr. Il corpo di Diotima. La passione e la libertà femminile, p. 157). Non si nasce violenti, lo si diventa (come si nasce ineluttabilmente da corpo femminile) per affermarsi tramite il possesso e da qui tutto l’inventario delle cose certe, puntualizzerebbe Joyce Lussu, sul corpo femminile: l’imene, la dote, l’isteria che costituiscono l’insieme della verginità come garanzia. Ma come donne abbiamo questo statuto da assolvere? Perché ogni gesto femminile, dal misticismo alla veggenza alla cura di sé e del mondo, viene (s)travolto nello scarto maschile che mantiene per sé pornografia e prostituzione come due estremi emblematici di una sessualità (quella maschile) ancora tutta irrisolta tra bisogno e desiderio? Da qui, è possibile per ognuna/o di noi trovare una chiave per leggere e interpretare l’attuale femminicidio e rimando, tra i tanti, anche agli interventi di Michela Marzano e di Lidia Menapace. Ma la domanda da porre alla nostra riflessione è se l’autorità e la libertà possono convivere o è una forzatura tra (un) uomo e (una) donna?

sabato 2 gennaio 2016

IPERBOLE
Del tempo che scorre e Dell'essere-che-è senza puntiglio fin dalla silenziosa Teano pitagorica il pensiero viene colto dalla sophìa (femminile) come nella metafora di quel fare e disfare della maglia (in)tessuta ogni dì per una certa pretestuosa uni-versal r-esistenza ad aeternum come un ego cono d'ombra. (Cfr. anche, ma non solo, "Il corpo di Diotima. La passione filosofica e la libertà femminile", Quodlibet, p. 56, "Il volto della Sophè", I, 2, nota 164).